Nel 1932, Joseph Messner, direttore della Cappella Musicale del Duomo di Salisburgo, commissiona a Gnecchi la composizione di una messa: nasce la Missa Salisburgensis, dedicata al Principe Arcivescovo della città.
La tradizione italiana a StrasburgoOpera che si rivela importante per il panorama della musica sacra italiana ma anche per la storia della tradizione musicale salisburghese, la Missa è eseguita per la prima volta nel Duomo di Salisburgo il 23 luglio 1933 con la direzione dello stesso Messner e voce solista il soprano viennese Erika Rokita. Le pagine di Gnecchi riannodano le fila di un’anticatradizione che affidava a musicisti italiani la composizione di opere sacre per la Cattedrale.
Il successo della Missa è unanime e la stampa internazionale saluta il lavoro come una delle più interessanti opere moderne di musica sacra. Il “Salzburger Chronik” annuncia addirittura la nascita di un «nuovo stile», quasi l’avvento di un «Palestrina in veste moderna».
Il critico Karl Neumayr chiude così la sua lunga recensione del concerto: «Il 23 luglio 1933 segna una pietra miliare nella storia del Coro del Duomo salisburghese. Poiché la Missa Salisburgensis di Gnecchi è il più importante lavoro di musica sacra della nuova Italia, ed è anche la prima grande opera che l’immortale genio italiano, dopo la movimentata Messa di Benevoli (1628), abbia dedicato alla Cattedrale di Salisburgo».
La Missa Salisburgensis s’impone effettivamente per uno stile nuovo, misto di dramma tedesco e lirica italiana, sempre devoti al testo liturgico. Profonda umanità e somma grandiosità si fondono in un equilibrio musicale attento, espressione dell’armonia del “divino” col “terreno”.
Gnecchi parte, quasi come un leit-motiv, da alcune battute del corale di Paulus Hofhaimer (1459-1537), le cui note risuonano ogni giorno dall’alto della fortezza di Salisburgo. Note che fondano il Preludio e aprono il “Kyrie“, dando il via a un gioco polifonico fra coro e soprano, fino a innalzarsi nello slancio estatico del “Christe Eleison“.
Un sentimento puro e religioso tenuto lontano da ogni enfasi, persino nel “Gloria“, che si annuncia nel suo appello di pace, come un fugato che s’inchina alla severa forma della polifonia classica. Mistico è lo slancio del soprano solo, ma pacato il lirismo che si snoda in lente movenze fino a raggiungere l’esplosione dell’inno grandioso finale, e nell'”Amen” riecheggiano le note del Corale di Hofhaimer.
Poi tenori e bassi intonano il “Credo“, dove il mistero dell’Incarnazione è trattato magistralmente ma anche con l’umiltà del credente, scolpendo quasi in modo veristico l’immagine della resurrezione nelle parole di una preghiera che tocca il cuore.
Col “Sanctus” si raggiunge l’apice dell’opera: è una pagina magistrale, in stile fugato, in cui si alternano l’indimenticabile emozione del solo del soprano con la meravigliosa logica che sottende l’intera costruzione. Poi il “Benedictus“, non a caso infuso di timide dolcezze quasi mozartiane; e infine il puro e quasi romantico “Agnus“, avvolto da un alone di drammatico lirismo, che si stempera nel tema fremente e soave del conclusivo “Dona pacem”.